Grand Tour – “Edgar Degas e l’Accademia Reale di Belle Arti di Napoli” di Rosa Spinillo
Nel 1854, durante il suo primo viaggio in Italia, Degas è presso la famiglia napoletana nel palazzo di famiglia, a pochi passi da piazza del Gesù Nuovo. L’artista si reca spesso nelle aule dell’Accademia Reale, è irrequieto e per appagare la sua curiosità sente la necessità di una scorsa all’arte del luogo, alla ricerca di stimoli nuovi per la sua arte. Prendere contatti con gli artisti del posto, scambiarsi delle opinioni, rendono la sua ricerca molto eccitante. Non è munito di permesso di entrata, ma non se ne preoccupa, i controlli sono molto elastici. Raimondi afferma:- “…Degas apprese… le prime nozioni di disegno e pittura sotto la guida di maestri napoletani…”.[1]L’Accademia è un Istituto prestigioso, fondato da un sovrano illuminato, dove tutti vi possono accedere e frequentarlo mediante un semplice permesso firmato da Re Ferdinando. Ma l’allievo accettato, dovrà sottoporsi alla rigida scuola del disegno. I primi rudimenti del disegno verranno appresi dallo studio dei gessi e del nudo, fino “a sviluppare il genio della composizione”. La scuola di pittura favorisce le varie tecniche pittoriche. Ha un grado inferiore, in cui viene insegnata “la pratica del colorire a olio e a fresco, dipingendo dal vero o copiando gli esemplari antichi; nel superiore, gli alunni dovevano, secondo la norma dello Statuto, colorire qualunque propria produzione”.[2] Sono queste le direttive e il metodo di Costanzo Angelini artista neoclassico e uno dei professori dell’Accademia. C’è poi lo studio della scultura che può realizzarsi solo dopo “L’apprendimento del modellare il nudo e l’esercizio di copia sui modelli antichi che doveva portare alla composizione e all’intelligenza dell’arte pura dello scolpire”.[3] Ma il metodo Angelini è superato ed ha i suoi limiti. Pertanto si sente la necessità all’interno dell’Istituto di un rinnovamento didattico. Questo è il desiderio degli artisti più giovani e più inclini alle idee moderne, ma osteggiato dalla Reale Accademia. Urge dare una migliore condizione di vita alla scuola ma ciò al momento non è possibile per la grave crisi statale. Uno stato che avanza a fatica e rinvìa ogni problema ed ogni soluzione a tempi migliori. Così non si provvede a dare una sede indipendente all’Istituto di Belle Arti, più adeguata alle nuove esigenze e con molti nuovi iscritti. La coabitazione con il Reale Museo Borbonico nel Palazzo dei Regi Studi è diventata sempre più difficile. I locali sono insufficienti, le varie scuole sono ubicate in parti dell’edificio distanti tra loro, concentrate in vani angusti e poco illuminati. In queste aule è vietato accendere il fuoco, per cui d’inverno l’attività degli allievi è temporaneamente sospesa, a causa dell’impossibilità di lavorare sui modelli nudi. Per mesi l’attività artistica si limita all’esercizio di studi di teste dal vero. Alcune scuole per mancanza di riscaldamento, vengono trasferite fuori dall’edificio. La scuola di scultura, nella fredda stagione si trasferisce a San Potito dove si trovano i modelli viventi: il gabinetto di macchine anatomiche in cera, in un deposito al largo delle Pigne. La lotta per gli spazi, tra il Museo e l’Istituto di Belle Arti si farà sempre più acuta, a danno di quest’ultimo, si temerà il peggio. Infatti si vocifera il trasferimento dell’Istituto nell’antica sede di San Carlo alle Mortelle, un edificio vetusto ridotto in pessime condizioni.
Con Regio Decreto 17 gennaio 1852, “ Fu disposto che le scuole dell’Istituto che occupavano una parte del Reale Museo, vi rimanessero fino a che non si fossero provveduti nuovi locali…”.[4]
Il problema della sede indipendente verrà risolto dopo il 1860, dallo Stato Italiano.
Nel 1853, muore Costanzo Angelini, gli succede nella cattedra di Disegno Giuseppe Mancinelli.
Questi più illuminato di Angelini, è sensibile all’aria di riforme che si respira dovunque agli inizi della seconda metà del secolo. “ Le cause dell’aridità artistica prevalente in questa fase accademica, non sono tutte da imputare alla pedanteria dell’insegnamento dell’Angelini, ma risiedono nella freddezza di temperamento degli allievi dell’Accademia che non ebbero qualità per superare i dogmi scolastici…Rimasero nell’atmosfera più stagnante”.[5]
E’ questo il periodo in cui a Napoli si dipingono tele storiche convenzionali, ad opera di artisti quali Camillo Guerra, Tommaso de Vivo e Giuseppe de Mattia. Guerra dipinge anche tele sacre per gli altari della chiesa di S. Francesco di Paola, accanto al massimo esponente della pittura romana del tempo, Vincenzo Camuccini e al toscano Pietro Benvenuti, i due segnano il limite della pittura accademica napoletana.
A Napoli fiorisce una ritrattistica di forte accento davidiano mescolata ad una locale tendenza realistica di stampo settecentesca. E’ dettata da un profondo bisogno spirituale di reazione all’accademismo imperante. Questo nella prima metà dell’Ottocento.
Fanno parte di questo gruppo, Angelini, Giuseppe Cammarano con i ritratti delle principessine Borboniche, al museo di Capodimonte, Gaetano Forte, Teodoro Mancini, Natale Carta e Giuseppe Bonolis. Quest’ultimo si forma sotto la direzione di Costanzo Angelini, “nel periodo del più rigoroso accademismo neoclassico, nel Reale Istituto di Belle Arti, ma poi si trasformò in tardo neocaraccesco di tipo camucciniano a Roma. Dall’astrattezza neoclassica egli piegò ad una contenuta espressione di sentimentalità, ma attraverso tale tessitura accademica, la sua individualità rimase offuscata”.[6] Gli scritti di Bonolis, contro i dogmi dell’insegnamento ufficiale, avranno risultati limitati. Combatte lo studio dell’antico:- “Che si stampa nella mente dei giovani ed impedisce loro di formare la propria individualità, il carattere, come egli afferma, vagheggiava la bellezza ideale di Leonardo, di Raffaello, di Tiziano adombranti l’esimia bellezza della forma greca”.[7] Questo artista anticipa il naturalismo pre-palizziano, ma nell’ambiente accademico non sarà preso in considerazione. Un altro artista napoletano, Saverio Altamura osserva:-“Al presente nell’Istituto poco si cura lo studio del colorito dal vero; ma è nostra opinione che non solo questo studio è di gran momento nell’arte, ma che si debba ogni mattina studiare e ricercare le leggi e i segreti del colorito dal vero, perché la bellezza si rende visibile ai nostri occhi mediante la vaghezza dei colori”.[8] Le frequenti rimostranze di questi allievi dell’Accademia contro il metodo della Scuola di Disegno di C. Angelini, e della scuola di Pittura di Camillo Guerra non verranno ascoltate.
Guerra, napoletano (1797-1874) dirige la pittura ufficiale dal 1834 al 1861. E’ uno dei pittori accademici del tardo periodo borbonico e da Morelli viene ricordato con una punta di ironia tra “ I maestri celebrati i quali vivevano in un’atmosfera superiore lontano dai giovani. Noi non avevamo nessun contatto intimo con essi: incontrandoli per via facevamo loro di cappello inchinandoci, e solo qualcuno osava di baciar loro la mano”.[9] Di lì a poco, contro l’arte ufficiale, si scatenerà la rivolta di Filippo Palizzi, che porterà al naturalismo.
La vita artistica napoletana è da un lato quella dell’Accademia, rigida e serrata nell’elaborazione da parte dei suoi artisti, di quadri storici esaltanti virtù greco- romane, o romantiche gesta di stampo medievale e rinascimentale, presenti anche in certa paesaggistica antiquata di matrice neoclassica. Dall’altro lato vi è la pittura anti-accademica rappresentata da un gruppo di vedutisti che dipingono all’aria aperta, incuranti della norma accademica, denominata Scuola di Posillipo. Ma questa rappresenta solo una parte del rinnovamento della pittura napoletana, con la sola eccezione di Giacinto Gigante.
La vera riforma naturalistica viene attuata a Napoli da Filippo Palizzi al di fuori dell’Accademia, si compie e si afferma durante il ventennio 1840 – 1860. Proprio negli anni in cui Degas è a Napoli.
Il periodo di studi trascorso nell’Accademia Reale di Belle Arti di Napoli , dove Filippo Palizzi si iscrive nel 1837, viene dallo stesso ricordato in alcune sue annotazioni autografe, in cui dichiara la sua incompatibilità assoluta nei confronti dell’ insegnamento accademico mirante ad una fredda e sterile imitazione dell’antico e all’invariabile fissità delle luci al chiuso delle aule del Museo: -“ Sono venuto a Napoli nell’ottobre 1837, nell’età di diciotto anni…Per studiare la pittura, al novembre seguente entrai nell’Istituto di Belle Arti.
Vi restai tre mesi. Per naturale ripugnanza non potetti conformarmi all’ambiente artistico di Napoli. Ebbi a soffrire giorni di crudeli disinganni, mi si chiuse l’animo in una melanconia disperata, indi sopravvenne lo stato di misantropia in mezzo a quell’ ambiente in cui non si poteva liberamente respirare, il mio desiderio di lavorare mi travagliava tanto che divenni misantropo”.[10] Filippo abbandona l’Istituto e incomincia a studiare e a lavorare per conto suo. Frequenta lo studio del pittore Bonolis che l’istruisce al disegno con metodo semplice, poi alla pittura. Passano pochi mesi e Filippo già ritrae figure e animali dal vero.
Non rompe del tutto con l’Accademia infatti come allievo partecipa ai concorsi indetti dall’Istituto, vincendo una volta il premio per la pittura e l’altra per il disegno. Il tema della manifestazione, in entrambi i casi è stato il ritrarre animali dal vero e così la prima come la seconda volta a Filippo toccò il premio migliore. Rientrerà nell’ Istituto solo nella maturità, a settantatrè anni, quando gli verrà affidata la direzione della cattedra di Paesaggio, rimasta vuota dopo la morte di Gabriele Smargiassi.
Smargiassi, conterraneo di Filippo, in quanto proveniente da Vasto negli Abruzzi nel 1854 e nel 1855 dipinge ancora tele accademiche convenzionali come il San Francesco che scaccia il demonio e il San Francesco in preghiera, anche se negli anni ’40 ha eseguito numerosi studi dal vero come lo Studio di alberi e lo Studio di cascata. Smargiassi è un profondo avversario della riforma palizziana, basti ricordare che la nomina di Palizzi sarà possibile solo dopo la sua morte.
Anche gli altri fratelli di Filippo sono stati allievi dell’Accademia, Giuseppe, Nicola e Francesco –Paolo Palizzi. L’altro cardine su cui ruota il rinnovamento delle arti è Domenico Morelli.
Il Pensionato a Roma, nella sede di Palazzo Farnese istituzione fortemente voluta dal governo borbonico per il perfezionamento degli allievi migliori, riscuote molto successo, insieme alle Esposizioni borboniche nate sull’esempio dei Saloon francesi, ad emulazione della politica espositiva avviata da Murat durante il decennio francese.
Francesco I il 14 settembre 1825 indice con un decreto una “pubblica esposizione di belle arti da aver luogo nel dì 4 ottobre di ciascun anno nel locale del Real Palazzo degli Studi”.[11] E’ significativo per una comprensione dell’arte del tempo, la visione delle opere più rappresentative all’interno di queste esposizioni.
In quella del ’51 troviamo esposti i dipinti di :- “ De Napoli, con San Francesco che mostra le stimmate a diversi frati, Morelli con i Martiri cristiani che sono una promessa sicura, lodato dallo stesso Bozzelli per l’argomento e la fattura, mentre Vertunni, Beniamino De Francesco, Nicola La Volpe e Gabriele Smargiassi con i suoi alunni e i Palizzi danno nuovo impulso alla pittura di paese, che meriterebbe uno studio particolare”.[12]
Germi di rinnovamento nell’esposizione del ’55:-“ Possiam contare su Saverio dell’Abadessa, Giovanni Del Re… Francesco Sagliano, Bernardo Celentano e su altri, che poca relazione hanno con l’arte accademica e quel tanto che è in ciascuno sparirà appena saranno liberi della scuola nei loro studi in Napoli e fuori”.[13] E’ interessante ricordare un opuscolo anonimo, “Piaghe dell’istruzione pubblica napolitana”, comparso più tardi nel 1860, in cui si legge :-“ L’Istituto è fuorviato… non ha saputo atteggiarsi ai nuovi richiami della scienza, che le arti fecondano, addita ad essi da gran tempo nuovi veri, che la sua pedanteria non ha saputo riconoscere negli antichi maestri. Ferdinando Troja proibì il nudo e fece fornire il modello di brache corte… L’Istituto non ha protestato contro lo sciocco ministro”.[14] Alla grande esposizione del ’55 ci sono anche le opere di Domenico Morelli reduce dal Pensionato romano, è presente con : Gli Iconoclasti, I corpi dei martiri Giustina e Cipriana trasportati dall’anfiteatro alle catacombe. I due dipinti d’impianto scenografico e teatrale, “Appartengono già ad un’arte che va di pari passo con le condizioni della società rinnovellata nelle lettere e nelle scienze”.[15] La folla davanti alla tela degli Iconoclasti è enorme, molti la criticano, altri l’ammirano. E’ una tela diversa dall’altra il Cesare Borgia all’assedio di Capua dello stesso Morelli.
“ Questa era più delicata, più condotta, più dorata e di una superficie gustosa, piacevole, elegante; mentre la pittura degli Iconoclasti era assai robusta, non dorata, ma spinta nei colori e grigia nelle tinte fondamentali; ed una superficie grezza, che lasciava vedere il lavorìo dei ruvidi pennelli. Allontanandosi però di qualche metro dal quadro, l’effetto era sbalorditivo. Un rilievo da far sembrare le figure vive, e dei colori che non si trovavano i simili in tutta l’Esposizione: somigliavano ai colori dei mosaici bizantini, ed il quadro era bizantino. Quegli scalini di pietra grigia, che evidenza! Quella testa del monaco pittore, che espressione!”.[16]
La presenza del Re è assicurata in queste Esposizioni e quando Ferdinando arriva e si ferma davanti all’opera di Morelli ha un sussulto:- “Chi ha fatto stu quadro?
-Maestà (dissero i signori ed i professori che l’accompagnavano), Morelli, quel giovane pensionato….
– Ah, aggio capito; chiamammillo – e Morelli si presentò timido e mezzo impaurito. –
– Che è stato? – disse il re, e Morelli, sempre impaurito, fece un inchino.- Aie fatto nu bello quadro! Aie fatto nu bello quadro! –e poi altre cose gli disse, vedendolo ferito alla fronte – e gli disse – Nun fa ‘a pittura cu certe penziere ‘a dinto! ‘O ssaie? Aie capite?-
– Però, dopotutto, il re mandò a chiamare Morelli alla reggia, s’intrattenne con lui lungamente, e gli affidò subito le decorazioni della magnifica cattedrale di Gaeta”.[17] In questi anni prima del 1860, procede in avanti la riforma dell’arte napoletana: – “ I pochi che a quest’epoca ricordevole si trovarono innanzi negli anni e non potettero trasformarsi finirono accademici; alcuni, non più giovani, tentarono di mettersi sulla nuova via e vi riuscirono in parte; gli altri poi, che appena appena si erano appressati alla scuola, si trovarono giovanissimi alla redenzione della patria e trassero profitto dall’opera inapprezzabile del Palizzi e del Morelli, ai quali veramente deve tutta l’arte napoletana.
Filippo Palizzi per aver amato e compresa la natura con sentimento unico e raro, per averla presto ritratta con perfezione non raggiunta per lo innanzi, secondato dal Gigante, dai paesisti in genere più a contatto del vero e in specie da quelli conosciuti ancor oggi col nome di Scuola di Posillipo, mostrò tacitamente che cosa dovesse sostituirsi alle più perfette forme greche comunque ritratte dai moderni.
Domenico Morelli, per aver intuito con l’ingegno fecondo poi da buoni studi, prima e meglio degli altri, che l’arte vive la vita dello spirito, in una forma caratteristica tutta propria interessò grandemente con la sottile analisi dei moti e degli stati dell’animo, e fu il vero maestro della scuola napoletana…fecero dimenticar dopo il ’60 il lungo periodo di decadimento e richiamarono anzi l’attenzione di quelli che in Italia e fuori si erano svolti in ambienti più favorevoli senza inceppi e senza soste dannose.”[18]
Note:
[1] R. Raimondi, Degas e la sua famiglia in Napoli, p.252. Rosa Spinillo, Degas e Napoli – Gli anni giovanili, Salerno, Plectica 2004
Ho cercato nell’Archivio storico della soprintendenza archeologica di Napoli i permessi che avrebbero potuto accordare a Degas per disegnare nel Reale Museo, negli scavi archeologici di Pompei o altri permessi per ritrarre i monumenti in fotografia. Non c’era traccia documentabile. Mi è anche stato detto dal funzionario responsabile che la maggior parte dei permessi è andata dispersa durante l’ultimo conflitto mondiale. Così all’Archivio di Stato di Napoli dove più tardi sono stata a controllare. Il funzionario di questo Archivio mi ha confermato che quando non si trovano tracce bisogna attenersi alla tradizione orale più attendibile ( In questo caso Raimondi ). Non nego che mi sono stati utilissimi gli articoli del Prof. Reff.
[2] Lorenzetti, op. cit. p.79
[3] Ibidem, p.79
[4] Lorenzetti, idem, p.112[5] Idem, p.219
[6] Idem, p.222
[7] Ibidem, p.222. Si veda nota n.1. G. Bonolis, Di un nuovo ordinamento intorno alla Scuola di Belle Arti, Napoli, 1849.
[8] Lorenzetti, ibidem, p.222. nota n.2. S. Altamura, Vita e Arte, Napoli, Tocco, 1896.
[9] Domenico Morelli – Edoardo Dalbono, La Scuola napoletana di Pittura, Bari, 1915, p.5.
[10] Idem, p.6.
[11] E’ il decreto n.492 del 14 settembre 1825, pubblicato in Collezione Leggi e Decreti del Regno di Napoli, Napoli,1845.
[12] Angelo Borzelli, L’Accademia del Disegno- dal 1815 al 1860, in “Napoli nobilissima”, op. cit. p.141.
[13] Ibidem, p.141.
[14] Borzelli, ibidem, p.141.
[15] Ibidem, p.141.
[16] Edoardo Dalbono, Domenico Morelli, in “ Napoli nobilissima” op. cit. p.34.
[17] Ibidem, p.34.
[18] Angelo Borzelli, L’Accademia del disegno… in “Napoli nobilissima”op. cit. p.141.